Sono la testimonianza vivente degli antichi cacciatori e raccoglitori, i discendenti di un’umanità che non conosce la metallurgia, la ceramica, l’allevamento, l’agricoltura. Non conoscono alcuna forma di autorità, di divieto e non conoscono la violenza. Sono l’ultimo esempio di società acefale, anarchiche, piccoli gruppi di uomini erranti, in totale simbiosi con la Natura. Vivono nel XXI secolo come ha vissuto tutta l’umanità, dalla sua comparsa lungo la Rift Valley 200 mila anni fa, fino a circa 10 mila anni fa, quando la scoperta dell’agricoltura ha innescato la spirale della crescita che ci ha portati ad essere quelli che siamo oggi.
Si definiscono Hadzabe, piccolo gruppo etnico composto da circa 1500 individui, 200 famiglie, che vivono spostandosi di continuo alla ricerca di prede e di acqua tra il versante meridionale del Cratere di Ngorongoro e il Lake Eyasi, in Tanzania. Si nutrono degli animali che cacciano con arco e frecce aiutati da piccoli cani biondi e, in assenza di prede, dei frutti del baobab, di bacche, radici, miele selvatico. Non conoscono i concetti di accumulazione e di proprietà, non fanno scorte alimentari e i pochi beni sono a disposizione di tutti. Fino a non molti anni fa non praticavano la sepoltura.
Da dove vengono i piccoli uomini del bush che hanno gelosamente conservato la loro cultura e la millenaria economia di caccia e raccolta, adattando la loro esistenza ai ritmi della natura e ad un ambiente ostile?
L’esistenza degli Hadzabe, pressoché sconosciuti ai non specialisti, ha per gli studiosi un grande valore. Sono innegabili, sia dal punto di vista fisico che culturale, le analogie con le popolazioni San, i bushmen del Kalahari: gli Hazdapi presentano inconfondibili genotipi e fenotipi caratteristici dei San, quali i capelli a grano di pepe, la corporatura minuta, il colorito olivastro e l’accentuata rugosità; come i San, anche gli Hazdabe non conoscono l’agricoltura, l’allevamento e la metallurgia e come i San parlano una lingua a click, fatta di suoni schioccanti prodotti mettendo la lingua contro il palato in determinate posizioni, ciascuno dei quali ha una propria valenza semantica.
Tali analogie sono riscontrate dall’africanista russo Olderogge e dall’archeologo inglese Sutton. Per quest’ultimo, tali “parentele” non possono essere spiegate con una migrazione, avvenuta in tempi recenti, di popolazioni provenienti dall’Africa del Sud fino alla Tanzania centro-settentrionale. L’inferiorità tecnologica rispetto ai popoli che avrebbero incontrato durante il loro percorso avrebbe loro impedito di poter raggiungere terre così lontane. Una spiegazione più plausibile è quella dell’esistenza di un continuum di tali popoli di cacciatori-raccoglitori in tutta l’Africa a Sud dell’Equatore, interrotto dal successivo avvento di popoli di lingua e cultura differenti. Popolazioni simili agli Hazdabe avrebbero – secondo Sutton – abitato tutta l’Africa Australe per poi essere in gran parte sostituiti da genti “nuove”.
Tra il secondo e il primo millennio a.C. penetrarono nel mondo fisico dei cacciatori-raccoglitori popoli di ceppo cuscitico provenienti dal Corno d’Africa, aventi in comune la cultura pastorale e la lingua cuscitica: i Wairaq, etnia che ancora oggi vive, insieme ad altre, nei villaggi stanziali ai margini del Lake Eyasi. Di statura alta, dalla pelle piuttosto chiara e dalle fattezze nilotico-asiatiche, i Wairaq introdussero nella regione la coltura del miglio, l’allevamento dei buoi dalle lunghe corna, insieme al rito della circoncisione e al tabù del pesce. Altre ondate migratorie di popoli cuscitici ebbero luogo alla metà del primo millennio a.C., attraverso l’Uganda.
Se l’arrivo dei Wairaq scosse l’equilibrio degli antichi cacciatori-raccoglitori, fu il massiccio arrivo di genti di ceppo Bantu a stravolgere radicalmente la cultura e la vita stessa dei popoli della Tanzania. Risale a circa 3000 anni fa l’inizio della diaspora Bantu che, partendo dalla valle del fiume Benoue tra Cameroun e Nigeria – come ipotizza il glottologo J. Greenberg – avrebbe, con diverse ondate – interessato tutta la porzione australe del continente africano. L’avanzamento del Sahara, che tra il 7000 e il 2000 a.C. si sarebbe interamente prosciugato diventando deserto, e le conseguenti siccità e carestie nelle regioni circostanti sarebbero all’origine di queste massicce migrazioni. I Bantu riuscirono facilmente a sottomettere i popoli di cacciatori-raccoglitori preesistenti, favoriti dalla conoscenza della metallurgia e di elaborate tecniche agricole.
Diversi secoli sarebbero passati prima dell’arrivo di nuove popolazioni, questa volta di origine nilotico-camitica: i Datoga, giunti dal Nord nel XVII secolo, che ancora oggi vivono nella regione dell’Eyasi conservando lo stile di vita pastorale, le poligamia, le vistose scarificazioni facciali femminili e l’abbigliamento in pelle. Abili guerrieri, i Datoga devono aver combattuto contro i Wairaq per insediarsi nel territorio, e contro un’altra popolazione di ceppo nilotico che, mossa circa 2000 anni fa dall’alta valle del Nilo, è giunta in Tanzania non prima di quattro secoli or sono: i pastori Maasai.
Oggi nella regione che si estende tra Karatu e Man’gola, tra Ngorongoro e Lake Eyasi, vivono popolazioni appartenenti a ben quattro famiglie linguistiche diverse: cuscitica, bantu, nilotica, san. Se il progressivo meticciamento ha portato all’affievolirsi di differenze morfologiche un tempo più marcate, le differenze linguistiche sono ancora forti e il senso di appartenenza all’uno o all’altro gruppo è radicato.
Gli Hadzabe sono riusciti a conservare le proprie caratteristiche morfologiche e culturali spingendosi in aree sempre più remote e marginali. I piccoli uomini del bush del nostro tempo vivono un’esistenza precaria, fortemente condizionati dall’ambiente e, in maniera sempre crescente, dall’espansione dei terreni agricoli e delle aree protette – riserve e parchi nazionali – al cui interno non è permesso loro cacciare. I vecchi ricordano con nostalgia i tempi in cui il loro popolo disponeva di immensi territori di caccia, quando le prede erano abbondanti e la fame sconosciuta. Il contatto culturale che li vede protagonisti passivi procede inesorabile. I limiti ambientali e quelli imposti dall’uomo rendono il futuro degli Hazdabe a dir poco incerto.
Estratto da un articolo di Rocco Lastella pubblicato sul n° 3/2001 della rivista scientifica bimestrale “Afriche e Orienti”, Bologna.
IL VIAGGIO PERFETTO PER TE