Il bianco fiume del Polar Stream fluttua al sole davanti alle coste orientali della Groenlandia. Dall’aereo appare come un immenso puzzle di ghiaccio, che scende lentamente verso sud trascinandosi dietro i gelidi faraglioni degli iceberg. Vista di qui la «Terra verde» dei Vichinghi, sembra una beffa: una catena di picchi innevati, tra cui si insinuano ghiacciai che cadono in mare con grandiose seraccate.
Il Polar Stream è un fiume di lastroni di ghiaccio provenienti dallo scioglimento della calotta polare, che ad ogni estate scorre nel mare antistante la costa orientale della Groenlandia come un gelido nastro, largo una trentina di chilometri e lungo alcune migliaia.
Fu questa distesa di ghiaccio galleggiante a preservare gli inuit del Tunu dal primo incontro con il resto del mondo fino alla fine dell’Ottocento. Di non essere soli al mondo gli eschimesi dell’isola di Angmassalik si resero conto solo allora. Stavano pescando come ogni estate i piccoli pesci della famiglia dei salmonidi che hanno dato il nome all’isola groenlandese - Angmassalik significa «là dove ci sono i pesci» - quando il vascello del luogotenente Gustav Holm entrò nel fiordo. L’imbarcazione danese aveva doppiato Capo Farewell ed era venuta bordeggiando sotto costa alla ricerca di resti vichinghi.
Fu in quella prodigiosa estate del 1884 che il modo di pensare della gente del villaggio inuit di Tasilaq di colpo cambiò. La stupefacente rivelazione di una razza di uomini dalla pelle stranamente rosea, dai capelli e dalle lunghe barbe bionde, dagli occhi chiari e non a mandorla come quelli degli eschimesi, segnava il loro ingresso nella storia. Per migliaia di anni quegli inuit avevano vissuto in totale isolamento dal resto mondo, quasi una mitica Shangrilà boreale miracolosamente sopravvissuta a testimoniare in piena età industriale il mito settecentesco del bon sauvage.
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