Ci sono incontri che non si dimenticano, che ti restano dentro, che ti emozionano, che ti fanno riflettere. Incontri che aggiungono valore a un viaggio e anche alla tua esperienza di vita. Uno di questi incontri è quello con gli Himba.
Sono un sottogruppo etnico degli Herero, con cui condividono la lingua, ma non gli usi e i costumi. Pastori nomadi, vivono in una terra montuosa e desertica al Nord della Namibia: il Kaokoland. Una landa inospitale, attraversata solo da piste polverose, che ha portato all'isolamento, ma che ha anche consentito loro di mantenere nei secoli inalterate le tradizioni, dando la possibilità ai pochi turisti che raggiungono queste terre di vivere uno spaccato di Africa vera.
Prima di addentarsi nei loro territori, però, è d’uso fermarsi nell’ultima cittadina raggiunta dalla strada asfaltata, Opuwo, che in lingua herero significa, non a caso, “la fine”. Qui, in uno dei tanti negozietti, si potranno acquistare generi di prima necessità (farina, zucchero, riso, patate, ecc.) e magari anche un po’ di tabacco: saranno il lasciapassare per entrare nel villaggio Himba. Gli acquisti infatti, verranno esaminati dall’anziano capo e, se verranno accettati, consentiranno di entrare in contatto con la tribù.
Visitare un villaggio Himba è come fare un salto nel passato.
La prima cosa che colpisce, varcato il recinto spinoso di protezione che circonda le capanne fatte di paglia, rami, fango e sterco, e collocate intorno a una più grande struttura centrale, è la straordinaria bellezza delle donne Himba.
Scolpite come statue di terracotta, verrebbe da dire.
Sì, perché il loro corpo, alto e snello, è completamente ricoperto da un impasto di polvere d’ocra, erbe e burro che dona loro un colore rossastro. Il composto serve per proteggere la pelle da scottature e dalle punture degli insetti, oltre che, per tradizione, essere considerato molto “sexy”.
Fiere, eleganti e disinibite, si cospargono la pelle più volte al giorno e dedicano molto tempo ad acconciarsi i capelli, ricoperti anch’essi della stessa mistura.
Sono loro, vestite solo con una gonnellina di pelle di capra, ad occuparsi del villaggio, mentre spesso gli uomini sono lontani, al seguito del bestiame. In questa società matriarcale, è la donna più anziana a custodire il “fuoco sacro”, situato nella grande capanna al centro del villaggio, che non deve spegnersi mai, mentre le più giovani, oltre a curare i bambini, raccolgono l’acqua, spesso molto distante, costruiscono le capanne, intrecciano cesti e preparano il cibo.
Gli Himba sono animisti e tutto per loro ha un significato: il modo di portare i capelli, per esempio, denota lo stato sociale, la conchiglia che pende tra i seni delle giovani donne è considerata un simbolo di fertilità e il fuoco sacro rappresenta lo “spirito del bene” che protegge la tribù.
Di particolare fascino è la tradizione che vuole che ogni essere umano sia legato a una canzone che lo accompagnerà per tutta la vita: quella che la sua mamma ha sentito cantare dentro di lei quando il bambino, non ancora concepito, le ha fatto capire così che voleva venire al mondo. Sarà proprio quel momento, per altro, ad essere considerato per sempre il compleanno di un figlio.
Incontrare questo popolo che vive ancora oggi a stretto contatto con la terra, con la natura e con gli animali è davvero un’esperienza indimenticabile. Certo, la contaminazione della “modernità” rischia di compromettere tradizioni secolari e un raro patrimonio culturale. Per questo, chi decide di visitare un villaggio Himba, deve fare in modo che i suoi comportamenti non minino l’identità e i valori radicati di questa etnia.
Basta poco. Basta riflettere. Basta rispettare quei pochi esseri umani che sanno ancora vivere in armonia con la Madre Terra.